Feste popolari
Festa della capra, dello stagnino e della barba
A Castellero d’Asti, durante gli ultimi giorni di Carnevale si teneva la festa “d’la crava, del stagnin e d’la barba”, ricca di significati simbolici. Il personaggio della Capra era impersonato da un giovane del paese, coperto da una pelle di capra, che procedeva lentamente e con la testa abbassata per evitare di essere riconosciuto.La rappresentazione aveva inizio il Giovedì Grasso: la Capra veniva condotta nelle vie di Castellero per ricordare a tutti che era tempo di preparare le robiole e i “tumin” per il pranzo di Carnevale previsto per la domenica successiva. A volte il chiassoso corteo si fermava davanti a una casa, e gli abitanti venivano esortati ad indovinare chi fosse il ragazzo che vestiva i panni dell’animale. Rispetto alle due che seguiranno, questa cerimonia è più semplice, poiché si svolge senza canti o recitazioni codificate; il suo scopo principale è richiamare l’attenzione della popolazione alle rappresentazioni più articolate dei giorni seguenti. Il giorno dopo, il percorso era ripetuto dallo stagnin, lo stagnaro, che con il volto coperto di fuliggine passava di casa in casa per aggiustare le pentole, sempre per il pranzo di carnevale. La maschera gridava in falsetto: “Stagniné, stagniné, dòne”, e le donne chiamate in causa scendevano in strada con un oggetto qualsiasi che veniva colpito con due tocchi, al grido di: “Ciapetta, ciapettina / la bronssa e la ramina / faremo tic e tac, / di trenta bona, / cara padrona / ti voglio stagninar”. A ogni tappa si offriva da bere al calderaio, che al termine della giornata era più malconcio delle pentole che avrebbe dovuto riparare. Il sabato era il giorno del rito più importante, il taglio della barba, in vista della festa del giorno seguente. Lungo tutto il paese si disponeva un corteo di buffi barbieri ambulanti comandati dal padrone, che aveva una folta barba di stoppa e una catena da carro di traverso sul panciotto. Egli si faceva portare dagli inservienti un enorme rasoio, un paio di forbici di legno e uno specchio di latta; poi entrava in casa, si affacciava ad una finestra e iniziava a cantare: “O garzoni, garzoni, garzoni”. Gli inservienti rispondevano: “O padroni, padroni, padroni, / cosa volete còmandar?”. E il padrone: “Còmando alla serventa / che mi ven-a a scové la stanssa, / ché la barba voglio far, / ad un òmò di qualità”; poi il personaggio scendeva in un angolo del cortile, dove una ragazza iniziava a spazzare, e cantava: “Còmando al sor Andrea / che mi porti la cadrea / che la barba voglio far / ad un uomo di qualità”. Infine il padrone chiamava il cliente: “Còmando al sor Lüis / che mi porti qui i barbis”; ed il “sor Lüis” arrivava con i suoi due baffoni finti, accompagnato dalla moglie che teneva in mano una conocchia. Intanto il padrone continuava a comandare, affinché gli portassero il sapone (in una grossa scodella di legno) e il pennello (una coda di vacca). Dopo che erano stati raccolti tutti gli strumenti, aveva inizio il rito della rasatura dei baffi di Lüis: un garzone gli insaponava la faccia e il padrone infieriva con violenti colpi di rasoio, provocando le urla di dolore del pover’uomo. Allora interveniva la moglie, che lo rimproverava per la sua maleducazione colpendolo con la conocchia, fino a farlo svenire. Si rendeva così necessario l’intervento del medico, che ordinava alla moglie di ridare fiato a Lüis con il soffietto da fuoco che gli aveva infilato in bocca. La rappresentazione terminava con la guarigione dell’uomo e l’abbraccio con la moglie, tra gli applausi della folla e la musica allegra della banda (Gallo Pecca, 1987, pp. 152-154).