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Fonte: ICCD - Progetto PACI / MiC – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione ICCD
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Saperi e tecniche

Preparazione di pane carasau

Due donne attraversano l'interno di una cucina, portando una fascina e un sacco, che ripongono poi a terra, vicino a un forno. Nel frattempo, cinque donne sono inginocchiate intorno a una madia di legno: lavorano l'impasto, oscillando con il busto, sollevando il bacino e facendo leva sulle ginocchia, mentre, con le braccia tese, imprimono forza sui palmi delle mani semichiusi, in modo da schiacciare e amalgamare l'impasto. Durante la lavorazione, una donna seduta a terra versa dell'acqua sull'impasto da una ciotola; un'altra lo cosparge di farina; le altre donne continuano ad amalgamare, unendo i pani per creare forme più grandi, che poi sollevano e lasciano cadere al centro della madia. In una seconda fase, le donne sono intorno a un tavolo e continuano a impastare, mentre un'altra donna è intenta ad alimentare il fuoco, inserendo uno ad uno i rami nel forno. I panetti vengono poi disposti tra le pieghe di un rotolo di tela, per la lievitazione. In un terzo momento, le donne preparano le sfoglie circolari stirando la pasta con i mattarelli. Una volta preparate, le sfoglie vengono piegate a metà e passate a una delle donne, che le ripiega una seconda volta, le solleva, le dispone su un rotolo di panno e le spiega, per poi coprirle con il panno, mentre le altre donne continuano a formare altri dischi. Una donna arrotola poi uno dei teli; altre due sono vicine alle due bocche del forno: una è in piedi, chinata, e alimenta il fuoco; l'altra è accovacciata e inforna una sfoglia dopo averla disposta su una pala. La sfoglia in forno si gonfia, mentre la donna usa una pala per sollevarne il bordo e poi per girarla. Due donne sono sedute a terra, l'una accanto all'altra, vicino ad un tavolino posto vicino al forno. Davanti alla prima arriva una sfoglia cotta, ancora gonfia; la donna allora la tira delicatamente e elimina la farina in eccesso usando una spazzola. La seconda donna pulisce i bordi di un'altra sfoglia con le mani. Infine, le donne procedono alla separazione delle due facce della sfoglia: una inserisce il coltello tra una faccia e l'altra facendo un taglio lungo la circonferenza; un'altra preme con i palmi aperti su un'altra sfoglia. Altre donne continuano a preparare e infornare dischi, mentre un bambino osserva. Il pane carasau è un pane sardo, tipico della Barbagia. Secondo alcuni, il termine carasau deriverebbe dal verbo carasare che significa tostare, con il quale si indica la fase della cottura finale delle sfoglie. Il carasau è un pane a sfoglie sottili e circolari, con diametro variabile tra 15 e 40 centimetri; si caratterizza per la lunga conservazione, che lo rendeva funzionale all'organizzazione del lavoro delle società agropastorali sarde, permettendo ai pastori di avere pane a disposizione nei periodi di lunga permanenza lontano da casa. La preparazione del carasau è stata oggetto di studio per quanto concerne le dinamiche sociali attivate, la produzione degli attrezzi (cesti, panni, pale) e le forme di gestualità rituale che accopagnavano le diverse fasi di lavorazione. Il ciclo di lavorazione tradizionale, chiamato sa cotta, si caratterizzava per la complessità e l'esistenza di numerose varianti di impasto, lievitazione e cottura che determinavano differenze nel sapore, nella dimensione e nella consistenza della sfoglia. La prima fase della lavorazione (s'inthurtare) consisteva nella preparazione dell'impasto con lievito madre (sa matriche), sciolto in acqua tiepida e mescolato e lavorato con la farina in una madia di legno (iscivu, lacu o lachedda a seconda delle zone) o in una conca di terracotta (tianu o impastera). Nella seconda fase di amalgama (cariatura), la pasta veniva schiacciata e manipolata con forza con i pugni e riavvolta su stessa fino ad ottenere un impasto liscio. La fase della lievitazione, chiamata pesare, prevedeva la sistemazione dell'impasto in speciali contenitori (in Barbagia si usavano malune di sughero) ricoperti con teli di lana. Una volta avviata la lievitazione, l'impasto veniva diviso in parti regolari, chiamati sestare o orire, infarinati e avvolti poi in teli di lana o lino e riposti in canestri (san horves o canistreddas). Terminata la lievitazione, la pasta veniva lavorata con mattarelli (sos cannedos), in modo da ottenere sfoglie circolari, che venivano poi poste l'una sull'altra all'interno di panni di lana (sos savanos o pannos de ispica) lunghi fino a dieci metri e larghi 50 cm, che venivano srotolati prima verso destra e poi verso sinistra per accogliere le sfoglie. Le pile di sfoglie erano avvolte con coperte e messe nuovamente a lievitare. La fase della cottura era preceduta dalla preparazione del forno, acceso con legna di quercia o olivastro e alimentato fino a raggiungere la temperatura di 450-500°. A questo punto, le braci venivano spostate su un lato del forno, con una particolare scopa (s'iscopile), fatta ramoscelli freschi di lentisco (saucu, ferula o mudduru) e si procedeva con la cottura. In una prima fase, le sfoglie venivano inserite nel forno con una pala, dove il calore permetteva il rigonfiamento della pasta e la separazione della sfoglia in due strati. Con una pala più piccola (sa palitta), poi, la sfoglia veniva rivoltata e sfornata. A questo punto, con una spazzola si eliminava la farina in eccesso, e con un coltello si procedeva alla divisione dei due strati (fase chiamata sa carpitura). Si producevano così due dischi (sos duos pizzos), ciascuno con un lato liscio e uno ruvido. Si procedeva poi con la cottura finale (casarare): le sfoglie venivano rimesse in forno una per una e lasciate tostare per un tempo che variava a seconda del grado di doratura e croccantezza che si voleva ottenere. Terminata la seconda cottura, le sfoglie venivano sistemate in cesti di asfodelo (sas isportas) e disposte in pile che potevano raggiungere il metro e avvolte in panni.