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Stefano Rossotto

Stefano Rossotto

Stefano Rossotto rappresenta la terza generazione alla guida dell’azienda fondata da suo nonno Ferdinando nel 1923, quando decise di impiantare i primi vigneti sulla collina di Cinzano Torinese. Il lavoro nell’attività di famiglia comincia all’età di 14 anni, dopo le scuole medie: Stefano lavora e al contempo prende il diploma da agrotecnico frequentando le scuole serali. Ci racconta di come, negli anni, l’azienda sia cresciuta di dimensioni, specializzandosi nel settore vitivinicolo e perdendo l’allevamento bovino; è rimasta la produzione di frutta, che lavorano per fare del sottovaso, e quella dell’orto. Stefano ricorda quello che patirono i suoi nonni e suo padre Aldo, che oggi ha 92 anni, in periodo di guerra: le colline furono vituperate dai tedeschi, che arrivarono con le milizie e misero a ferro e fuoco i paesi. Le vigne funsero anche da nascondiglio. Negli anni ha migliorato le tecniche di vinificazione che, specialmente sul territorio della collina torinese, erano poco conosciute; fatto questo, ha cominciato a selezionare i vitigni che più si prestano a quel territorio, come il Freisa, la Malvasia, la Bonarda, il Cari (un Pelaverga a bacca grande) e la Barbera. Il bisnonno Stefano era il mezzadro della cascina del Parroco, ubicata nella zona centrale di Cinzano: c’erano le bestie, si tenevano i buoi per tirare i carri, si coltivava il granoturco, il grano e già allora si produceva vino, come testimoniano le foto fatte da Don Bellino. Il bisnonno ebbe 4 figli, uno di questi era Ferdinando che, poiché l’attività familiare era molto esigua, preferì lasciare la sua “parte” al fratello e alle sorelle e decise di comprare un pezzo di cascina che confinava con la casa del Parroco: da lì cominciò l’attività agricola e vitivinicola, che si espanse un po’ alla volta. Stefano racconta di come la fillossera rappresentò un problema grossissimo, che falcidiò quasi tutti i vitigni non solo di quel territorio ma di tutta Italia; la soluzione fu trovata osservando che le viti americane non venivano attaccate da questo parassita. L’idea fu quindi di impiantare la vite americana e sovrainnestare il vitigno del territorio, nel loro caso il Freisa.  Essere viticoltore sulla collina di Torino negli anni ’70 era una scelta controcorrente, perché chi aveva la possibilità andava a lavorare nelle industrie, abbandonando il territorio: quel lavoro non era considerato alla stregua di altri, era una scelta di vita difficile. Il Monferrato e l’Astigiano hanno vissuto meno lo spopolamento, perché chi aveva già un’azienda prima di andarsene ci pensava di più. Il territorio della collina, spopolandosi e con sempre meno vigneti, si è quindi impoverito sia da un punto di vista demografico che di appeal e ciò ha creato delle problematiche per far riconoscere il proprio lavoro. I figli di Stefano, Matteo e Federico, hanno fatto la scelta di fermarsi in azienda con l’obiettivo di implementare il lavoro fatto finora, lavorando sulla qualità, reimpiantando i vigneti oramai molto vecchi e aprendo nuovi mercati per far fronte al calo dei consumi. Stefano è legato a tutti i suoi vigneti, perché in tutti c’è una storia: ad esempio per l’ultimo ha fatto di tutto per impiantarlo dove già il bisnonno lo coltivava per la Parrocchia di Cinzano, arrivando a prendere in affitto il terreno dalla Diocesi di Torino! Ci racconta di come la vinificazione del Freisa sia cambiata negli anni: fino agli anni ’70 era diffusa la versione dolce, poi ha cominciato ad essere vinificata più sul secco e leggermente vivace. In presenza di uve molto mature e con semi ben lignificati si può fare una macerazione più lunga che consente al vino di durare negli anni, anche una decina. Le loro etichette riflettono il mondo contadino e la territorialità: ad alcuni vini hanno dato nomi in piemontese, che indicano un mestiere (Bricolao), uno stato d’animo (Content) o che sono passati i mesi di affinamento (Sun Sì). Il più delle volte sono intuizioni, non c’è un filo conduttore: ognuno in famiglia mette del suo nelle etichette. Verso gli anni ’80 il vino fino veniva ancora venduto sfuso in damigiana e bottiglioni e non veniva etichettato; dopo lo scandalo del metanolo si è cercato di essere più propositivi sia sulla qualità che sui nomi delle DOC e del vitigno. Stefano afferma che per vendere il vino è importantissimo entrare in sinergia con il consumatore, parlare, far conoscere la storia della famiglia e di come fa a fare il vino. Su quel territorio il vino è contrassegnato dalla provenienza ampelografica da alcuni bricchi, ossia dalle colline più importanti. La festa della Vendemmia è un momento importante, perché serve a tenere insieme chi lavora nella stessa azienda: si accolgono tante persone e bambini che hanno voglia di vedere questo mondo e capire come funziona, facendo loro vedere da dove arriva quello che poi si ritroveranno nel bicchiere. Stefano pensa che gli antenati abbiano vissuto un periodo con delle asperità incredibili e spera di riuscire a creare un terreno favorevole per i figli che consenta loro di sopravvivere su quel territorio. Per Stefano il vino è un qualcosa di complesso, l’apice di un lavoro che ti ha impegnato per un anno: quando ti ritrovi con gli amici è convivialità, stare insieme e ritrovare nel bicchiere quei profumi e sapori intriganti che ti fanno ricordare delle cose un po’ diverse.  L’intervista si conclude con la citazione di alcuni modi di dire in piemontese, legati anche al mondo animale; ricorda che gli animali erano importantissimi, soprattutto quelli che dovevano lavorare, e la loro benedizione veniva fatta a Sant’Antonio, il 17 gennaio. Nel periodo primaverile si facevano anche delle rogazioni (processioni) guidate dal Parroco: si andava a pregare ai piloni votivi delle borgate per richiedere la protezione dell’annata agraria su quel territorio.

Cinzano (TO), IT Regionpiemonte
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